Shelter: un viaggio nella storia e nel territorio americano

Lo spunto per questo nuovo viaggio a cavallo delle parole americane è arrivato dalla diretta Facebook a cui ho parlato in qualità di relatrice ieri, organizzata da Langue&Parole con il prezioso supporto di Tlon (colgo l’occasione per ringraziare nuovamente entrambe le realtà, che vi invito a scoprire). La diretta ha voluto essere una piccola anticipazione dell’evento annuale di L&P dedicato proprio all’esplorazione delle professioni legate alle parole, Artigiani delle Parole.

Questo articolo è una rielaborazione del mio intervento.

Una premessa: inglese e Coronavirus

Una breve premessa: l’obiettivo del mio lavoro come insegnante di inglese americano è quello di permettere ai miei studenti non soltanto di comprendere un mondo che altrimenti continuerebbe per loro a essere un po’ impenetrabile, ma anche di comunicare il loro mondo interiore all’esterno. Un grandissimo insegnante che ho avuto nei miei anni di formazione diceva “quando i vostri alunni riusciranno a fare amicizia all’estero, saprete di aver fatto un buon lavoro”. È un mantra prezioso che mi motiva, e che spero di onorare, ogni giorno.

Qualche settimana fa, prima che la quarantena iniziasse in Italia, è successo proprio che una mia studentessa mi chiedesse aiuto nel raccontare le paure che stava vivendo a una amica conosciuta durante un viaggio negli Stati Uniti. Questa richiesta mi ha fatto capire che c’era bisogno di fornire ai miei studenti una piccola “cassetta degli attrezzi” che li aiutasse a comunicare quello che stavamo tutti iniziando a notare: i negozi chiusi, il lavorare da casa, le strade vuote, la separazione dai propri cari.

Specialmente in periodi difficili, spesso è proprio la possibilità di comunicare con gli altri, a salvarci o a darci almeno un pochino di serenità.
Così, ho creato un breve ciclo di lezioni dedicate a come parlare della pandemia che nel frattempo era entrata con prepotenza nelle nostre vite. A conclusione del ciclo ho spedito ai miei studenti un piccolo dizionario ragionato da consultare all’occorrenza, dedicato proprio alle parole per parlare del Coronavirus. Qualche giorno dopo l’ho condiviso gratuitamente attraverso il mio account Instagram, e il riscontro che ho avuto è stato sensazionale: decine di persone mi hanno risposto raccontandomi di quanto quello strumento fosse stato loro utile, persino diversi traduttori. Questo mi ha ricordato quanto sia importante e arricchente ragionare attorno alle parole.

[Hey, tu che mi stai leggendo! Ti interessa ricevere il dizionario per parlare del Coronavirus in inglese? Scrivimi e te lo manderò volentieri.]

Shelter: un viaggio nella storia e nel territorio americano

A seguito della condivisione del dizionario per parlare del Coronavirus, una delle parole di cui abbiamo più discusso è stata shelter-in-place, che è come gli americani parlano dello “stare in casa” durante la pandemia.

Non significa esattamente “quarantena”, per indicare la quale ci sono altri corrispettivi in inglese. Shelter in place è l’ordine che viene diramato dalle autorità quando c’è un pericolo imminente, per esempio una nube tossica o una sparatoria. Ormai l’espressione è entrata nel linguaggio comune per indicare il restare al chiuso, appunto, al riparo da una minaccia esterna. Quest’idea di “protezione” è veicolata da una parola imparentata con shelter, shield (scudo). Oggi il nemico è invisibile: il Coronavirus è un invisible shooter da cui è necessario mettersi al riparo.

Ma da dove deriva shelter-in-place? Deriva da shelter, che significa rifugio. È proprio nel senso di “tetto sopra la testa” che lo troviamo alla base dei bisogni dell’uomo insieme a air, food and water.

Shelter: dalla spedizione di Lewis e Clark a Superman

E se prendiamo il concetto di shelter come rifugio, è possibile tracciarne la presenza in quasi tutta la storia americana.

La spedizione di Lewis e Clark, voluta dal presidente Jefferson a inizio Ottocento per scoprire cosa ci fosse in quel territorio sterminato a ovest del Mississippi, costruiva degli shelter temporanei a ogni tappa. Molte di queste località sono ricordate da targhe commemorative a partire dalle Grandi Pianure fino ad arrivare all’Oceano Pacifico. Questi shelter offrivano riparo dalla wilderness di un territorio vergine.

Qualche mese fa ho concluso il mio viaggio in treno sulle quattro linee transcontinentali proprio in corrispondenza di uno di questi rifugi, che offriva una vista impagabile sul fiume Columbia in Oregon.

Anche la “ferrovia sotterranea”, quella rete di sentieri e di nascondigli che permise a migliaia di schiavi del sud di fuggire e arrivare in territori abolizionisti era punteggiata di shelter, invisibili agli occhi ma tramandati oralmente (ti consiglio questo meraviglioso libro di Colson Whitehead per scoprirne di più).

L’anno scorso ho avuto l’occasione di visitare uno sconvolgente museo a Cincinnati dedicato proprio a questa Underground Railroad, che naturalmente non è una vera ferrovia. Presso il National Underground Railroad Freedom Center è ospitato un oggetto unico, ovvero una ex prigione per schiavi proveniente da una piantagione di tabacco in Kentucky e ricostruita nel museo trave per trave. Si tratta di una delle strutture del genere più grandi mai ritrovate ed è visibile non solo da tutti i piani del museo ma anche da chi passeggia lungo il fiume Ohio, fuori dal museo. Come a ricordarci – ed è questo l’obiettivo del museo – che il sistema della schiavitù non è ancora stato sconfitto, e ne vediamo gli effetti nella società americana ancora oggi.

Sempre per restare in tema di grandi traumi nella storia statunitense, shelter si ritrova in un momento cruciale durante la Grande Depressione. Negli anni Trenta un periodo di siccità nelle Grandi Pianure, unito a un uso sconsiderato da parte dell’uomo del terreno agricolo, aveva fatto sì che nelle Great Plains dal Texas al Nebraska si scatenassero gigantesche tempeste di sabbia che oscuravano il sole e rendevano l’aria irrespirabile. Quella della Dust Bowl, la “ciotola di polvere”, è la premessa storica da cui prende il via Furore di Steinbeck, che racconta la storia di una famiglia di contadini “Okie” (provenienti dall’Oklahoma) in viaggio verso la California proprio per sfuggire alla siccità.
Per contrastare gli effetti di questa vera catastrofe ambientale, l’allora Presidente Roosevelt  (di cui si è parlato anche in questo post) diede inizio al Shelterbelt Project, che prevedeva la creazione di diversi filari di alberi che facessero da windbreaker, da riparo, contro la forza distruttiva delle tempeste.

E sono proprio queste tempeste di sabbia a traghettarci verso la prossima apparizione di shelter.

Gli shelter, specialmente con l’aggettivo fallout anteposto, erano di gran moda negli anni della Guerra Fredda. Si tratta infatti dei rifugi antiatomici che centinaia di famiglie avevano scavato nel giardinetto della loro villetta nei sobborghi, con l’intento di proteggersi in caso di un attacco da parte dell’odiata Unione Sovietica che tramava – invisibile come il virus – per distruggerli. Qualche anno fa lo Smithsonian ha acquistato uno di questi bunker, che è stato visibile per un periodo nel loro museo di storia americana come monumento alla paura pervasiva di quegli anni.

Monumenti meno visibili ma non meno interessanti sono quelli dei cartelli affissi agli edifici pubblici che segnalano la presenza di un fallout shelter, di un bunker antiatomico nelle vicinanze.

Non dimenticherò mai la prima volta che ne vidi uno: qualche anno fa ero partita per un viaggio di un mese lungo il fiume Mississippi e in quell’occasione decisi di fermarmi in una piccola cittadina pomposamente chiamata Metropolis, sulle rive del fiume Ohio, nell’Illinois meridionale. La classica small town americana: edifici bassi in mattoni rossi, strade larghe e deserte, un cielo blu immenso come solo i cieli del Midwest sanno essere.

Nei fumetti della DC, Metropolis è la città dove Clark Kent lavora e questo paesello da 6000 anime ha ben pensato di piazzare, proprio davanti al tribunale della contea, una statua gigante di Superman. Alle sue spalle c’è il cartello che segnala appunto la presenza di un bunker sotto l’edificio pubblico, ma che involontariamente finisce anche per ben riassumere le pulsioni di quell’epoca negli Stati Uniti in cui gli eroi erano sempre buoni e senza paura, e i nemici invisibili.

Sono in molti peraltro ad aver visto nella nascita di Superman una metafora della distruzione ambientale della Dust Bowl. La storia del primo vero supereroe americano, d’altronde, è strettamente legata alla distruzione di un pianeta, Krypton. Non solo: Clark Kent viene adottato da una famiglia del Kansas, guarda caso una delle zone più devastate dalle tempeste.

Cosa sono gli shelter oggi

E così siamo giunti al presente.

Oggi non ci sono esploratori o schiavi in fuga negli Stati Uniti, e si spera che anche il pericolo nucleare non sia così vicino, ma gli shelter rappresentano ancora oggi un simbolo di protezione.

I grandi trails, percorsi a piedi lungo le catene montuose americane come l’Appalachian Trail affrontato da Bill Bryson nello spassoso Una passeggiata nei boschi, sono intervallati da shelter ovvero camping che offrono riparo per la notte. E quel senso di protezione ritorna quando si tratta di animali randagi, protetti nei dog shelter (canili) o cat shelter (gattili). Ma si ritrova anche nelle case d’accoglienza per donne maltrattate, chiamate battered women shelter, oppure nei centri di accoglienza per i senzatetto, homeless shelter.

Sheltered e unsheltered: un prefisso fa la differenza tra vita e morte

Da shelter poi possiamo ricavare due aggettivi molto utili per parlare di chi è più o meno protetto. Sheltered infatti può voler dire semplicemente “protetto”, ma spesso è usato per indicare una persona che ha passato la giovinezza sotto una campana di vetro e non ha quindi gli strumenti giusti per affrontare il mondo reale nella vita adulta.
Dalla parte opposta dello spettro abbiamo unsheltered, per definire quindi chiunque sia privo di protezione. Si usa spesso per indicare quel sottogruppo di persone senza dimora che non solo appunto è senza casa, ma non dorme nemmeno in una struttura d’emergenza. Le persone unsheltered sono prive di alcun tipo di protezione, anche contro il Coronavirus.

Questo è un problema incredibilmente grande nelle metropoli americane. Nel 2006 ho lavorato per un periodo a San Francisco per una organizzazione che si occupava dei senzatetto della città ed è una questione che da allora mi sta molto a cuore. San Francisco ha una enorme popolazione di senzatetto, circa 8000 oggi. Ciascuno di questi è un individuo con problemi di salute dati proprio dalle difficoltà del vivere per strada. La città è stata lodata (anche sulle pagine dell’Atlantic prima e di Internazionale dopo) per la sua gestione tempestiva dell’emergenza Covid, con la chiusura delle attività commerciali e l’ordine appunto di shelter-in-place. Ma i senzatetto sono stati sistemati in rifugi collettivi, dove era naturale che il contagio si sarebbe diffuso facilmente: qualche giorno fa, per la sorpresa di nessuno, sono stati trovati positivi in 70 in uno di questi centri d’accoglienza.

Questa storia rende ancora più evidente il fatto che un semplice prefisso negativo, quel un- che ci porta da sheltered unsheltered, può davvero racchiudere la differenza tra la vita e la morte.

Questo virus sta gettando sale sulle ferite che ci sono sempre state nella società americana, soprattutto la differenza tra privilegiati e non – di nuovo, tra chi è sheltered e chi è unsheltered. Mentre i privilegiati per i quali il social distancing (l’isolamento) non sarebbe così difficile possono permettersi di marciare armati per le strade del Michigan protestando contro il lockdown, i meno fortunati si ammalano e muoiono senza far rumore.

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